Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione (la percezione immediata), il presente del futuro l’attesa.
Sant’Agostino, Le confessioni
I livelli possibili dell’esperienza
La nostra capacità di vivere esperienze riguarda tre fondamentali suddivisioni temporali: tutto ciò che conosciamo per le esperienze trascorse, vale a dire il passato, ciò che andiamo a conoscere ora o esperienza attuale, cioè il presente, e lo sconosciuto, il nuovo, cioè il futuro.
Queste tre aree temporali: Passato, Presente e Futuro coesistono sempre nella situazione che stiamo vivendo nel qui-e-ora e, al tempo stesso, ci condizionano nella nostra capacità di saper accogliere l’esperienza e dare forma alle novità.
Soprattutto nei momenti di passaggio, in cui l’ansia del divenire ci spinge verso l’ignoto del nostro essere, abbiamo bisogno di poter attingere a tutte le nostre capacità per affrontare lo sconosciuto.
In circa quaranta anni di esperienza in ambito clinico e di formazione alla Psicoterapia della Gestalt, al Gestalt Counselling e alla Psicologia del Lavoro, ho rilevato l’utilità di focalizzare sette livelli su cui lavorare, che ci consentono di migliorare la nostra capacità di fare esperienza con l’ambiente: il livello Cognitivoverbale, il livello Immaginativo, il livello Emotivo, il livello Sensoriale, il livello Corporeo, il livello Relazionale ed il livello Spirituale.
Qui tratterò un’introduzione ai primi cinque, rinviando ad un altro scritto l’approfondimento degli altri due.
Il livello Cognitivo-verbale comprende il linguaggio, il pensiero razionale, le idee, la cultura, la capacità dialogica, la storia personale, il concetto che abbiamo di noi stessi, etc., vale a dire tutte le strutture permanenti che danno corpo alla nostra identità, e tutte le cose che sappiamo razionalmente sul mondo e sul come interagire con il nostro ambiente.
Riguarda pure i ruoli che ci assumiamo nel gruppo familiare, sociale e di lavoro. L’importanza della capacità cognitivo verbale nel contatto con l’ambiente è conosciuta da tutti noi: spesso si continua a valutare noi stessi e chi ci circonda in funzione di come ragiona e di come parla.
A volte questo livello viene ipervalutato, confermando l’equazione “sapere cognitivo = potere” a discapito di tutti gli altri modi di conoscenza e comprensione del mondo, e sorvolando sull’importanza della congruenza del comportamento di “colui che sa”. A volte invece viene svalutato, come se il ragionare sulle cose fosse solo un modo noioso o difensivo di allontanarsi dalla situazione presente e rifugiarsi nel “già conosciuto”.
Ma tutte le nostre esperienze passate, ricordate o metaforizzate nell’ambito del livello Cognitivoverbale, si riversano inevitabilmente e continuamente nella situazione presente, fornendoci codici di accesso all’esperienza del qui-e-ora con una drammatizzazione più o meno consapevole di strutture in noi consolidate (cliché, copioni, maschere, etichette, parti di noi che già conosciamo … ).
L’importanza, nel porci di fronte alle esperienze che andiamo a vivere nel qui e ora e nel progettarci nel nostro futuro, del processo con il quale selezioniamo solo alcune esperienze dal continuum della nostra vita e le organizziamo in storie significative nelle quali riconoscerci è stata da me già sottolineata in “La Gestalt della propria storia nel processo di integrazione con l’ambiente” Rametta, 1989.
Occorre usare appropriatamente l’esperienza passata, sia essa positiva o negativa, per transitare da un’idea storicizzata di noi e del mondo, ad una lettura di noi e dell’ambiente più aderente alla realtà attuale, per riscrivere continuamente la gestalt della nostra storia, passando dal discorso sui fatti ai fatti stessi, al fine di integrare il conosciuto con ciò che andiamo a vivere.
Il livello Immaginativo, ci fa leggere l’esperienza attraverso forme che includono l’uso del simbolo, della fantasia e dell’immaginazione.
F. Perls considerava la fantasia pericolosa, in quanto fuga potenziale dalla realtà. Se mettiamo in atto un non-ingaggio con il presente, per le esperienze negative già vissute o per l’ansia del futuro, ci raffiguriamo scene e rappresentazioni della realtà scambiandole per la realtà stessa.
Ma l’immaginazione e la fantasia servono anche a connettere tra loro elementi slegati, che resterebbero altrimenti senza significato, per costruire nuove combinazioni e nuove possibilità di contatto con il mondo.
Al mondo immaginativo è legata anche la sfera del sogno, anche se questo non è una fantasia in senso stretto: il sogno nella sua essenza notturna, pur essendo un appuntamento a cui ogni notte non possiamo mancare, appartiene ad una realtà che solo in minima parte possiamo afferrare al nostro risveglio, attraverso una sua rappresentazione simbolica e fantasmatica.
Sogno e fantasia possono fornirci, comunque, nuove possibilità di adattamento in situazioni difficili, dove la nostra abituale capacità razionale non sa darci soluzioni soddisfacenti, costretta com’è nel labirinto della logica, del già conosciuto e dello già sperimentato. All’ambito del fantasmatico, intimamente e autonomamente dal nostro controllo razionale, è legata la sfera delle emozioni, siano esse a tinte forti, come la rabbia, il panico, la gelosia, siano esse a tinte più tenui, come l’indifferenza, la noia e il fastidio.
A volte, anziché agire sul piano cognitivo – verbale, “siamo agiti” da un piano immaginativo – emotivo che ci trascina al di là del qui – e – ora. Se ad esempio sperimentiamo paura in una situazione presente difficile, è molto probabile che riprodurremo immagini paurose del passato, vissute o fantasticate, come baluardo estremo per gestire l’emozione che ci assale.
Il livello Emotivo è quello che noi sperimentiamo come il più personale, come quello da tenere più nascosto, ma paradossalmente è anche quello che più facilmente potrebbe connetterci agli altri individui. La connotazione emotiva della realtà e del nostro essere nel mondo ci fa sentire la nostra unicità e quindi ci guida nel processo di individuazione e di differenziazione dall’altro: assume quindi particolare importanza per il contatto con la realtà.
Eppure, molti ritengono che le emozioni siano un inutile fardello, zavorra di cui liberarsi, se si vuole essere efficaci e produttivi.
Invece la consapevolezza delle emozioni personali o del “clima” è centrale nel concetto di noi stessi e nel modo di entrare in contatto con il nostro ambiente familiare, sociale e lavorativo.
A volte tutto un gruppo vive la stessa emozione: se ad esempio, una tensione, un timore inconsapevole, pervade il clima del gruppo è probabile che un componente improvvisamente urli, riproducendo e mettendo in atto “uno per tutti” A sentimento condiviso; o, al contrario, “tutti” potrebbero attualizzare comportamenti di fuga o di conflittualità per l’emozione di “uno” non vissuta direttamente dall’interessato.
Il vivere l’emozione, che nel mondo animale consente e assicura la sopravvivenza del branco, quale risposta spontanea di orientamento riflesso, nell’animale uomo viene svalutata, in quanto superflua, o osteggiata, in quanto pericolosa, da una parte della nostra cultura che, a fini puramente manipolativi, basa spesso il suo potere sul controllo, sulla inibizione o sull’amplificazione artificiale dei nostri livelli emotivi.
Alle emozioni è legato il nostro modo di attivare il contatto con l’ambiente: se le riconosciamo e le sperimentiamo possiamo esprimerle, modularle, gestirle, interscambiarle consapevolmente con modalità relative agli altri livelli dell’esperienza, a tutto vantaggio nostro e del nostro ambiente: se sono arrabbiato con qualcuno, per esempio, e mi viene voglia di picchiarlo posso, invece, o colpire un cuscino, o mettermi a urlare, o sentire un brano di musica che mi trasmette la stessa emozione, o fare di corsa il giro dell’isolato in cui mi trovo, o semplicemente comunicargli verbalmente la mia rabbia.
Se, al contrario, neghiamo le nostre emozioni, per salvaguardare un’immagine ideale di noi, ci restringiamo sempre più nella testa, sui livelli cognitivo e immaginativo, anestetizzando distruttivamente il corpo e compromettendo il rapporto reale con l’ambiente. Percepire la nostra emozione ci rende possibile contestualizzarla, limitarla e comprenderla nel suo aspetto funzionale. La paura che sperimentiamo alla vista di un leone rende chiara la nostra situazione e, per tentare di sopravvivere, possiamo reagire con aggressività, paralisi o fuga.
Ma se non possiamo diventare consapevoli della nostra paura, essendo uomini impavidi e donne coraggiose, non vedremo neanche l’oggetto esterno connesso al nostro timore e l’emozione rimarrà diffusa nell’ambiente e amplificata; qualsiasi cosa potrà evocarla, amplificarla a sua volta, fino al terrore: reagire diventerà praticamente impossibile, in quanto insieme alla nostra emozione abbiamo alienato anche la nostra capacità di contestualizzarla e di decodificare significativamente gli stimoli esterni.
Una tristezza non sperimentata si amplifica, invade il campo fino alla depressione, e porta frequentemente alle malattie psicosomatiche, che, a loro modo, tentano di denunciare e contestualizzare quella tristezza.
Il timore di non riuscire a controllare le proprie emozioni, ci fa spesso difendere ed esplorare il mondo più con la testa che con i piedi; è evidente il paradosso, perché la testa sta in aria e i piedi per terra, e così esploriamo razionalmente, ignorando i messaggi emotivi e sensori, precludendoci la possibilità di un radicamento stabile alla realtà.
Nel livello Sensorio ci sono tutte le capacità sensoriali di entrare in contatto col mondo tramite i nostri cinque sensi.
Gli studi sulla percezione ci hanno dimostrato come questa non sia una fotografia fedele della realtà che ci circonda ma un’interpretazione grandemente influenzata da fattori interni ed esterni: questo continuo sforzo in direzione di un significato ha degli alleati nei nostri organi di senso; ma vista, udito, tatto, olfatto e gusto, non sono strumenti “dati”, sono capacità che necessitano di essere coltivate, curate ed affinate.
Alcune di queste capacità, come ad esempio la vista, e, in misura minore, l’udito, sono state più sviluppate a discapito di altre. Sono più trascurati l’olfatto, il tatto e il gusto. Nel cibi di un supermercato immaginiamo odore e gusto dalla scritta sulle scatole, o desumiamo il suo interno dalla dicitura dell’etichetta: siamo quindi incanalati più sul livello cognitivo e immaginativo che sul sensorio.
Così, per individuare le qualità e le caratteristiche di una persona appena conosciuta, partiamo spesso dal livello cognitivo o dal livello immaginativo riguardante il nostro passato, ma difficilmente ci fermiamo al dati fenomenologici: come mi ha stretto la mano, come muove lo sguardo, com’è il tono della sua voce, che profumo emana, etc..
Entrare in contatto con il livello sensorio ci porta immediatamente a fare i conti con la realtà fenomenologica dell’altro: anziché interpretare com’è l’altro posso fermarmi ai fatti, a ciò che vedo, sento, etc., rinviando ad un momento successivo una mia valutazione personale.
Se siamo coscienti delle nostre sensazioni restiamo radicati alla realtà fenomenologica: la nostra capacità razionale ha continuamente bisogno di dati da dover elaborare, dati che possiamo percepire dal mondo esterno attraverso i nostri sensi; se riduciamo significativamente il nostro spiraglio di osservazione del mondo, saremo forse illusoriamente più protetti, ma certamente meno capaci di mobilitare la nostra energia e, paradossalmente, meno stabili in una realtà in continua trasformazione.
E, come in un’azienda il cui vertice decisionale si ostina a restare slegato dalla base esecutiva, attualizzando una scissione pericolosa che a lungo andare darà risultati disastrosi, anche l’efficacia del nostro contatto con il mondo sarà inevitabilmente ridotta e compromessa. Vista, udito, tatto, olfatto e gusto sono le nostre finestre sul mondo e dobbiamo imparare a meglio gestirne l’apertura e la chiusura.
Il livello Corporeo è legato alle sensazioni interne del nostro corpo, alla nostra postura, all’occupare uno spazio e a muoversi in quello spazio, ai gesti e alla gestualità, alla considerazione del corpo nella sua interezza ed anche alle singole parti che lo compongono.
Il corpo raccoglie la proiezione dell’immagine di sé e pertanto le è subordinato. Difficilmente, infatti, lasciamo che il corpo ci guidi in alcune situazioni, come, ad esempio, quando fumiamo o mangiamo di più di quello che farebbe sentire bene il nostro corpo.
Questo è fortemente portatore di elementi strutturali, è la struttura fisica della nostra esistenza, e riceve tutte le scariche narcisistiche del nostro bisogno di auto affermazione, del nostro senso di onnipotenza o del nostro masochismo; è il nostro suddito preferito, e come tale a volte si ribella e ci dà una batosta.
È un po’ l’opposto del livello cognitivo, insito nella parte alta, nella testa, mentre il resto del corpo è “messo più in basso”, anche nel senso che il cognitivo lo considera tale.
Curiosamente, nella nostra cultura ciò che è posto geograficamente a nord appare più qualitativo di ciò che è a sud, come nel nostro corpo in cui la parte “alta” è ben valutata e la parte “bassa” è la più svalutata.
Né bisogna farsi fuorviare dalla cura eccessiva che al giorno d’oggi viene riservata all’oggetto “corpo”: rimane pur sempre una macchina non pensante che ci deve ubbidire, ci deve portare in giro facendoci fare bella figura, ci deve sostenere nei momenti di bisogno, ci deve far divertire e dare piacere, e, soprattutto, non deve infastidirci con i suoi inutili bisogni legati al benessere.
Ma il corpo è la stessa nostra vita: al di là del fatto se questa è l’unica forma spaziale o temporale della nostra esistenza, è sicuramente la forma che ci tocca vivere oggi.
La differenza fra “essere” un corpo o “avere” un corpo determina spesso la differenza fra salute e malattia, fra empatia e psicopatia, fra cultura e culturismo.